domenica 27 gennaio 2019

"MEDITATE CHE QUESTO È STATO". Nel 1938 Liliana Segre fu espulsa dalla scuola elementare perché ebrea


Nel 1938 Liliana Segre fu espulsa dalla scuola elementare perché ebrea. 

Ottant’anni dopo è arrivata in Senato per continuare a testimoniare l’orrore che ha vissuto: «Ieri come oggi molti girano la testa dall’altra parte» 

Liliana Segre a 13 anni nel luglio 1943, cinque mesi prima la deportazione ad Auschwitz Pubblichiamo l'intervista integrale alla senatrice Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, che a dicembre è stata scelta come "Italiana dell'anno" 2018 dal direttore e dalla redazione di Famiglia
Cristiana. «Un Paese ci vuole, per non essere soli», scriveva Cesare Pavese. Il Paese di Liliana Segre, ebrea, sopravvissuta ad Auschwitz, senatrice a vita, è l’Italia. È il Paese che nel 1938 le sbatté in faccia le porte della scuola elementare Fratelli Ruf€fini di Milano: espulsa perché ebrea. È il Paese che ottant’anni dopo, il 19 gennaio 2018, per volere del presidente Sergio Mattarella, le ha aperto le porte del Senato della Repubblica. L’abisso della vergogna e l’onore del riscatto. «Sono solo una nonna», si schermisce seduta sulla poltrona della sua casa di Milano, poco distante da quella di corso Magenta 55 dove tornò nell’agosto del 1945 quando stava per compiere 15 anni e pesava 32 chili e dove, a gennaio, poserà, dopo quella dedicata al padre Alberto, altre due pietre d’inciampo in memoria dei nonni. Liliana Segre della nonna ha solo i capelli bianchi e l’età: 88 anni. È donna lucida, diretta, granitica. Oltre al padre, nella Shoah ha perso altri sei familiari: i nonni paterni, Olga e Giuseppe, fondatore nel 1897 della Segre & Schieppati Tessuti industriali, e quattro cugini, Rosa Spiegel con il figlio Felice e Rino Ravenna con il fratello Giulio. Dal 6 febbraio 1944 al 1° maggio 1945, quando fu liberata dalle truppe americane, la bambina con il pigiama a righe è passata attraverso quattro lager: da Auschwitz-Birkenau a Ravensbrück, poi in uno Jugendlager, infine a Malchow. Liliana Segre non recrimina, non accusa, non assolve. Racconta e basta. In trent’anni ha incontrato più di duecentocinquantamila studenti: «I miei nipoti ideali», li chiama. Quando il 5 giugno scorso ha preso la parola in Senato l’Italia s’è accorta di che pasta è fatta questa donna che ha il numero di matricola 75.190 tatuato sul braccio: «Ho conosciuto la condizione di clandestina e di richiedente asilo», ha scandito, «ho conosciuto il carcere, ho conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite del campo di sterminio. Voglio aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri».

 Lei non piange mai. Perché? 

 «Quando arrivai ad Auschwitz e venni separata da mio padre piansi giorno e notte per una settimana, perché avevo capito cosa ci sarebbe accaduto. Poi, per anni, non ho versato più una lacrima. Del pianto, quando non è consolato da nessuno, si impara a fare a meno. Ho pianto di nuovo nel 1953, quando è nato il mio primogenito che si chiama Alberto come mio padre. Invidio chi riesce a sfogarsi piangendo e anche i credenti perché hanno Qualcuno che deterge le loro lacrime. Io non ho avuto né l’uno, né l’altro». 

 Che famiglia era la sua?

 «Profondamente italiana. Mio nonno era un milanese doc. I miei non frequentavano la sinagoga, eravamo una famiglia di agnostici. Di fatto, scoprii di essere ebrea con le leggi razziste del 1938. Mio padre era un ex ufficiale, un ragazzo del ’99 che aveva combattuto nella Prima guerra mondiale. Mio zio Amedeo, decorato con la croce di guerra a Caporetto, è stato un fascista della prima ora. Non avendo figli, dopo la Shoah mi adottò. È morto a 88 anni. Per quarant’anni l’ho sentito urlare ogni notte sempre per lo stesso incubo: tentava di tirare giù i genitori dal vagone piombato, ma non ci riusciva». 

 Che scoperta fu quella di essere ebrea?

«Avevo 8 anni quando furono promulgate le leggi razziali. Mio padre mi chiamò da parte, era settembre, e mi disse che non sarei potuta tornare più a scuola. Avevo finito la seconda, aspettavo di andare in terza. Quella parola, “espulsione”, fu terribile. Diventammo dei paria dalla sera alla mattina. Le mie amichette mi additavano per strada. Nessuno, a parte alcuni giusti, si interessò delle conseguenze di quelle leggi, ma solo quelli che ne furono vittime. La massa fu indifferente».

 Tutti?

 «No, alcuni si diedero da fare. I miei nonni materni si salvarono in un convento di Roma dove c’erano delle suore poverissime che non avevano neanche da mangiare e nascosero 21 ebrei su ordine di Pio XII». 

 Anche lei riuscì a nascondersi per un periodo? 

 «Papà riuscì a nascondermi prima a Ballabio e poi a Castellanza, presso due famiglie cattoliche, i Pozzi e i Civelli, che rischiarono la fucilazione per tenermi con loro. A dicembre del 1943 decise di scappare in Svizzera. Al confine, fummo acciuffati da una sentinella elvetica e portati nella gendarmeria di Arzo, in Canton Ticino, da dove ci rispedirono indietro. Ormai eravamo spacciati. In Italia fummo arrestati dai finanzieri italiani in camicia nera. Finii, da sola, prima nel carcere di Varese e poi in quello di Como. Finalmente mi riunirono a mio padre a San Vittore. Cella 202, quinto raggio, l’ultima casa che abbiamo avuto». 

 Quanto tempo rimaneste nella prigione milanese?

 «Quaranta giorni. Di notte mi svegliavo di soprassalto sulla brandina e vedevo papà inginocchiato accanto a me, in lacrime, chiedermi perdono per avermi generata». 

 Come sintetizzerebbe l’esperienza che ha vissuto?

 «Con le parole di Primo Levi quando descrive i quattro soldati russi che il 27 gennaio 1945 arrivano ai cancelli di Auschwitz e trovano mucchi di cadaveri. Nei loro occhi c’era tutto lo stupore per il male altrui. Quando, anni dopo la deportazione, lessi queste parole mi sono detta: questa è la mia esperienza. Ero nella fabbrica del male eppure ogni volta che ne vedevo una delle tante dimostrazioni restavo stupefatta. Ricordo gli ufficiali nazisti che dopo la sconfitta si tolsero la divisa come fosse un camice da lavoro per voltare pagina con terribile naturalezza». 

L’indifferenza è uno spettro che c’è anche oggi? 

 «L’indifferenza regna sovrana ora come allora. Non è questione di essere cattivi o buoni. È una regola che quando qualcosa non ti riguarda personalmente, lasci perdere. Questo è uguale in tutti i tempi. Certo, i non indifferenti ci sono sempre. Oggi si battono perché dei poveri disgraziati non siano lasciati ad affogare in mezzo al mare e non muoiano di gelo tra le montagne. Sono pochissimi, ma ci sono. È questa l’unica analogia con l’Italia di 80 anni fa quando furono promulgate le leggi razziste. Io sono stata scheletro e ho avuto fame da matti, sono stata schiava, richiedente asilo, che mi è stato negato, e clandestina sulle montagne con documenti falsi. Tutte queste cose le ho provate sulla mia pelle, so cosa significano e non riesco a dimenticarle. E ho visto persone essere uccise non perché avessero fatto qualcosa ma per la sola colpa di essere venute al mondo. Oggi la situazione per i richiedenti asilo è diversa, non tutti rischiano la morte come noi, ma non possiamo non essere allarmati per alcune leggi che toglieranno loro non solo il diritto di asilo, ma anche un tetto sulla testa per ripararsi dal gelo invernale». 

 Si è mai sentita in colpa per essere sopravvissuta?

 «No, mai». 

 Che cosa le ha dato la forza di sopravvivere ad Auschwitz? 

 «L’attaccamento alla vita. È qualcosa di primordiale, innato, che hanno tutti gli esseri umani, al di là della fede. Anche i malati terminali, i quali, pur sapendo di dover morire, magari tra atroci dolori, non staccano la spina. Ad Auschwitz, un giorno, vidi una donna che si suicidò attaccandosi ai fili elettrificati che delimitavano il campo. La guardai stupefatta e incredula. Trovo che la vita possa essere un’avventura stupenda. Io ho avuto tre figli e tre nipoti, ho avuto la fortuna di avere un giardino dove i fiori sbocciano, avere accanto un uomo che mi ha amato, fare dei viaggi, vedere un panorama. Bisogna vivere ed essere forti, lo dico sempre ai ragazzi. Anche la marcia della morte si può trasformare in marcia della vita se si hanno la forza e il coraggio di resistere». 

 La nomina a senatrice a vita l’ha vissuta come un risarcimento da parte dell’Italia? 

 «No. Quando mi ha chiamato la segreteria del Quirinale credevo di essere finita su Scherzi a parte (ride, ndr). Non mi sembrava possibile, indicare me, una nonna, lontana dalla politica. Quando ho incontrato il presidente Mattarella gli ho chiesto chi mi avesse proposta. E lui: “Chiunque le dovesse dire che l’ha proposta farebbe millantato credito. Sono io che l’ho scelta. E quando l’ho nominata, io, che ho una figlia, ho pensato a suo padre”. Il presidente è un uomo timido, schivo, solo. E privo di retorica, come piace a me». 

 Cosa farà in Senato? 

 «Ho presentato un disegno di legge per istituire una commissione ad hoc per contrastare le parole di odio, razzismo, intolleranza, anche nella politica. Non è stato ancora esaminato, ma molti senatori lo hanno firmato insieme a me. Vorrei presentarne altri due: uno per ripristinare l’insegnamento dell’educazione civica dalla prima elementare e l’altro sul bullismo. Agli studenti dico che i bulli sono i più deboli, che devono essere curati, perché se uno si sente più forte dell’altro al punto da umiliarlo e non aiutarlo, allora c’è una debolezza che si esprime nella violenza». 

 Al prossimo esame di maturità non ci sarà il tema di storia: abolito. 

 «È un grosso errore. Per i latini la Storia era magistra vitae, serve a capire come affrontare il futuro. Ma a volte fa comodo cancellarla. I fatti passano, le cose cambiano. Io credo che la Shoah sarà una riga nei libri di storia e poi neanche una riga. Di questo sono convinta, ma non per questo non faccio il mio dovere».  

Crede che la sua testimonianza non sia servita a nulla?

 «Incontro spesso migliaia di ragazzi. Alla fine, mi dico sempre che se almeno uno di loro si ricorderà di quest’incontro è a lui che ho parlato e lui diventerà candela della memoria. Così avrò seminato una goccia nel mare. Ora l’antisemitismo è tornato, dopo la Seconda guerra mondiale c’era, ma covava sotto la cenere. Quindi i sei milioni di vittime dell’Olocausto sono morti invano? Io ce l’ho messa tutta per raccontare cosa succede quando si addita un capro espiatorio». 

 Qual è il suo articolo preferito della Costituzione?

 «Il 3. La nostra Costituzione ha una marcia in più perché ogni parola è stata scelta da persone oneste». 1937, Liliana Segre a 7 anni con il padre Alberto durante una vacanza a Macugnaga 1937, Liliana Segre a 7 anni con il padre Alberto durante una vacanza a Macugnaga 


CHI È LILIANA SEGRE 

Nata a Milano il 10 settembre 1930 in una famiglia ebraica, Liliana Segre è cresciuta senza la madre, Lucia Foligno, morta un anno dopo la sua nascita a 26 anni per un cancro. Nel 1938 lei e i suoi parenti vennero colpiti dalle leggi razziali emanate dal regime fascista. Con l’inizio della guerra e l’intensificarsi delle persecuzioni razziali, nel dicembre 1943, quando il Nord Italia era occupato dalle truppe tedesche, Liliana Segre e la sua famiglia cercarono di raggiungere la Svizzera, senza riuscirci. Il 30 gennaio 1944, a 13 anni, insieme alla famiglia venne deportata in treno da Milano verso il campo di sterminio nazista di Auschwitz, che raggiunse sette giorni dopo. Separata dal padre, fu mandata a lavorare presso la fabbrica di munizioni Union, di proprietà della Siemens. Il padre Alberto morì nell’aprile del 1944, mentre i nonni paterni, Giuseppe e Olga, deportati nel maggio di quell’anno, vennero uccisi al loro arrivo ad Auschwitz a giugno. Il primo maggio 1945, a pochi giorni dalla definitiva sconfitta nazista, Liliana Segre venne liberata. Fu una dei soli 25 italiani di età inferiore ai 14 anni deportati nei lager nazisti a sopravvivere, su un totale di 776. Dopo la guerra, Liliana Segre si costruì una famiglia e non parlò mai pubblicamente della sua deportazione fino agli inizi degli anni Novanta. Da quel momento iniziò a intervenire pubblicamente sull’argomento, divenendo testimone anche a nome di chi, volendo dimenticare, non si è mai sentito di raccontare quella tragedia vissuta in prima persona. In oltre trent’anni ha incontrato circa duecentocinquantamila studenti. Nel 1951 sposa l’avvocato civilista Alfredo Belli Paci, scomparso nel 2007, e con il quale ha vissuto 58 anni di matrimonio. Ha tre figli: Alberto, 65 anni, Luciano, 60, e Federica, 53, e tre nipoti: Edoardo, 30, Davide, 28, e Filippo, 14. Il 19 gennaio 2018 è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.( Fonte Famiglia Cristiana




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